Macerie. È ciò che resta delle case costruite senza fondamenta. Basta un sussulto per farle crollare, per farne briciole. È quello che è successo alla Roma. Una società, prima che una squadra, a cui mancava la base. Perché smantellata da tempo, a colpi di scelte incomprensibili. Quante volte avete sentito dire che dietro una grande squadra c’è una grande società? Ecco, la sua la Roma l’ha demolita pezzo per pezzo. Il primo, evidentissimo sintomo è stato l’isolamento di Mourinho, che di quel vuoto alle proprie spalle si è lamentato fin dai primi mesi, per poi pagare il prezzo di quelle frasi, più che dei risultati, con il licenziamento. Ignorava, José, di essere stato preso proprio per riempire quel vuoto, con quel suo ego ipertrofico, il suo curriculum, anche i suoi trofei, ultimo dei quali donato proprio alla Città Eterna.
Se ai tifosi chiedessero di comporre un decalogo, il primo dei loro comandamenti sarebbe: “Onora le nostre bandiere”. Il trattamento riservato a De Rossi, l’amarezza manifestata da Totti, lo stipendio e lo staff dimezzati a Bruno Conti, ne sono il più crudele dei tradimenti. Quando i Friedkin presero casa ai Parioli, la piazza gioì per una proprietà finalmente presente. Era un’allucinazione collettiva: si può vivere ai Parioli senza capire affatto cosa sia la Roma. Indicativo il fatto che, mentre la città bruciava, nei giorni scorsi, loro siano risaliti sull’aereo privato con cui avevano attraversato l’Oceano per tornare nella comfort zone in cui delle proteste del pubblico non arriva neanche l’eco.
E fin qui il cuore. Ma non c’è solo quello. In meno di tre anni Friedkin ha liquidato tre amministratori delegati. Prima quel Fienga che ne aveva accompagnato l’acquisizione: troppo ingombrante. Poi Pietro Berardi, che aveva semmai la colpa opposta. Infine Lina Souloukou: aveva il compito di ristrutturare Trigoria, ridurre i costi, forse traghettare la Roma verso una vendita a nuovi proprietari, chissà. Ha invece imposto un regime della paura ai dipendenti, dato sempre più potere a figure con sempre meno capacità alimentandone l’ego, licenziato lavoratori anche quando evidentemente vittime di revenge porn o di violazioni indicibili della loro privacy, persino quando malate. Ha collezionato contenziosi di lavoro, scheletrizzato gli organigrammi e i reparti, abbandonato la sede istituzionale, certamente ridotto le spese. Ma anche prosciugato la passione. Soprattutto, ha eroso le fondamenta di quello che è la Roma, ossia prima di tutto le persone che le stanno dentro, che la animano anche lontano dal campo: la sua comunità, la stessa che poi genera la passione che riempie l’Olimpico e permette la narrazione ipocrita del sold out. L’augurio è che la Roma, senza di lei, sappia ritrovare prima di tutto l’identità che in questo ultimo anno – e forse molto di più – ha sacrificato alle scelte cervellotiche della sempre più lontana proprietà americana.
Lasciateci però il tempo di una postilla. Le vergognose offese di cui Lina Souloukou è diventata bersaglio dopo il licenziamento di De Rossi sono ingiustificabili, da condannare senza se e senza ma, la disgustosa spuma della frustrazione di gente senza valori, che utilizza il tifo e la Roma come scusa per dar fondo ai peggiori istinti. E no, a quel coro immondo non ci accoderemo mai. Il fatto che una professionista debba dimettersi per tutelare figli e famiglia da minacce scritte o urlate è la peggiore sconfitta che il pubblico romanista abbia dovuto subire in questi anni bui.
La novità però è che è tornata la speranza. Perché nel frattempo è arrivata la prima vittoria della Roma di Ivan Juric: a vederla, somigliava a un bagliore all’orizzonte dopo un lungo viaggio nell’abisso. Ma se quel luccichio sia vera luce o solo un riflesso dovrà dirlo il tempo. Intanto a quel luccichio ci aggrappiamo, pensando e desiderando che sia l’inizio di qualcosa. Ma sapendo che sarà lunga la strada per tornare ad abbracciarci ancora.